Ha perso un'occasione Guanda, l'editore italiano in esclusiva di Jacques Prévert, nel rifiutare nei primi anni '90 la traduzione italiana dei suoi scénarios, una cui scelta in tre volumi era da poco apparsa in Francia presso Gallimard. Poco conta che nel centenario della sua nascita (Neilly-sur-Seine, 4 febbraio 1900) i suoi connazionali, un po' sciovinisti, lo avessero celebrato quale “scrittore del secolo” (davanti ad Albert Camus, Agatha Christie, André Malraux, Marcel Proust ed Ernest Hemingway) e che altri lo conoscessero soltanto come poeta da san Valentino o da baci Perugina. Contava che egli si presentasse come un grande sceneggiatore, autore di ben quaranta lungometraggi realizzati, e di altrettanti scénarios ben elaborati ma rimasti allo stato di progetto, nonché di una ventina di cortometraggi, documentari o disegni animati (il solo pur attendibile Imdb ne elenca in tutto 67). Cosa da far impallidire anche un vero professionista. L'iniziativa di Gallimard costituisce quindi solo un assaggio, ma quale assaggio! Jenny (1936, sceneggiatura da Pierre Rocher e dialoghi), Drôle de drame (1937, sceneggiatura da Storer Clouston e dialoghi), Le quai des brumes (1938, sceneggiatura da Pierre Mac Orlan e dialoghi), Les portes de la nuit (1946, soggetto dal balletto proprio e di Joseph Kosma, sceneggiatura e dialoghi), Le fleur de l'âge (circa 1947, interrotto, soggetto, sceneggiatura e dialoghi), tutti per la regia di Marcel Carné, con il quale si stabilisce un vero e proprio sodalizio, e Le crime de Monsieur Lange (1936, sceneggiatura dal soggetto di Jean Renoir e Jean Castanier e dialoghi), per la regia dello stesso Renoir, unico frutto della loro collaborazione. Mancano all'appello almeno L'affaire est dans le sac (1932, di Pierre Prévert), Le jour se lève (1939, di Carné), Remorques (1941, di Jean Grémillon), Lumière d'été (1943, di Grémillon), Les enfants du paradis (1945, ancora di Carné), Voyage surprise (1947, di Pierre Prévert). Leggendo i suoi testi, colpiscono all'unisono la qualità letteraria, che li rende autonomi e fruibili a sé, non meno che l'aspetto evocativo-visivo, che si traduce già in successione di immagini, quasi un apporto tecnico in sintonia con lo stile del realizzatore, e stile esso stesso. Non resta che il rimpianto di un cinema che sapeva coniugare la vita e la poesia, senza rientrare nell'ambigua categoria di quel “cinema di poesia” di pasoliniana memoria.
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