Nel 1927, in occasione di un processo intento dalla seconda moglie, i surrealisti (Aragon in testa, e Breton, Éluard, Prévert, Sadoul e gli altri) difesero Chaplin in un loro manifesto, Giù le mani dall'amore! in cui tra l'altro citavano il suo film L'emigrante (1917) con queste parole: «Noi ricorderemo lo spettacolo tragico dei passeggeri di terza classe etichettati come bestiame sul ponte della nave che porta Charlot in America, la brutalità dei rappresentanti dell'autorità, l'esame cinico degli emigranti, le sporche mani che frugano le donne, all'ingresso del paese della proibizione, sotto lo sguardo classico della Libertà che illumina il mondo» (in Glauco Viazzi, Chaplin e la critica, Laterza, 1955).
Nel 1955 una fantomatica Trianon Film “produce” e gli Indipendenti Regionali distribuiscono in Italia L'eterno vagabondo, un'antologia chapliniana di 76 minuti che assembla, tentando un discutibile filo narrativo unico, le seguenti comiche: Charlot apprendista, Charlot nel parco, La cura miracolosa, L'evaso, L'emigrante. Ma quest'ultimo risulta volgarmente manomesso: viene tagliato il lungo brano più sopra riportato, quello – che era piaciuto ai surrealisti – dello sbarco nel paese della libertà.
Chi è l'artefice di questa censura, la quale non arretra neppure di fronte a un classico come Charlot, ritenuto evidentemente un pericoloso sovversivo? Forse l'onorevole Andreotti, quello dei “panni sporchi”? No, il suo successore, un futuro Presidente della Repubblica dal nome altisonante di Oscar Luigi Scalfaro.
Il giovane Scalfaro ha come punto di riferimento un altro sincero democratico, Mario Scelba, che durante il suo governo (febbraio 1954-luglio 1955) lo chiama a ricoprire il ruolo di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e al Turismo e spettacolo, tra le cui competenze c'è anche quella censoria nei confronti dei film, la cui ammissione al circuito nazionale può essere negata se considerati contrari alla pubblica decenza o ammessa solo a condizione che alcune scene vengano tagliate. E il giovane Oscar Luigi si dà da fare, sbeffeggiato da destra e sinistra, da Guareschi come da Malaparte.
Non è nuovo peraltro all'onore delle cronache. Il 20 luglio 1950, trovandosi in un ristorante romano, riprende pubblicamente la giovane Edith Mingoni in Toussan, che si è tolta un bolerino a causa del caldo e mostra le spalle nude, apostrofandola con un: «È uno schifo! Una cosa indegna e abominevole! Lei manca di rispetto al locale e alle persone presenti. Se è vestita a quel modo è una donna disonesta. Le ordino di rimettere il bolerino!», e secondo alcuni anche schiaffeggiandola, per poi rientrare nel locale accompagnato da due imbarazzati poliziotti.
Come in un vaudeville o in una pochade, la donna – militante missina, il che complica le cose e le sposta su un piano politico – lo querela per ingiurie, alla Camera viene chiesta invano l'autorizzazione a procedere, il padre e poi il marito della signora sfidano allora Scalfaro a duello, la sfida – anche perché vietata dalla legge – viene respinta, il che fa indignare il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, del quale l'Avanti! pubblica una vibrante lettera aperta allo stesso Scalfaro, in cui gli si rimprovera un comportamento prima villano e poi codardo, ma il relativo processo per querela decade tre anni dopo per amnistia. E si chiude così lo “scandalo del prendisole”, che ancora una volta ha diviso un'Italia da operetta in due.