Non siamo in grado di giudicare il grande interprete teatrale scomparso in questo giorno, ma forse nemmeno l'ottimo attore cinematografico, condizionati come siamo dai ruoli da lui ricoperti. È il destino che tocca, almeno per quello che ci riguarda, a Pierre Fresnay.
Sì, proprio lui, ma non tanto il Marius della trilogia marsigliese di Pagnol (Marius, 1931; Fanny, 1932; César, 1936), che da noi non ha attecchito, e nemmeno l'aristocratico ufficiale nostalgico De Boëldieu, che pur si sacrificava per il proletario Maréchal in La grande illusione di Renoir (1937), quanto l'inquietante e tormentato dottor Germain di Il corvo (1943) di Clouzot, che sarà pur innocente ma non attira certo le nostre simpatie, sarà anche per quell'aria di collaborazionismo che grava su film, regista e protagonista.
Nell'intervallo tra la riabilitazione dalle accuse e l'avvento della nouvelle vague, che contribuirà a pensionarlo dallo schermo, Fresnay diventa l'idolo delle sale parrocchiali e dei circoli cattolici che replicano ad libitum la sua trilogia in abito talare: il sacerdote filantropo di Monsieur Vincent (1947, Cloche), il sagrestano autopromossosi officiante di Dio ha bisogno degli uomini (1950, Delannoy), l'apostata di Lo spretato (1953, Joannon).
Nessuna possibilità di simpatia. O sbagliamo tutto?