Se ci sono critici che si identificano con una città, questi è sicuramente Dario Zanelli, scomparso a Bologna in questo giorno, quella stessa Bologna in cui era nato nel 1923, ove si era laureato il lettore, ove aveva esordito come giornalista nel 1946 e ove aveva operato sino all'ultimo.
Identificavo Zanelli come uomo d'ordine e il suo quotidiano di riferimento, Il Resto del Carlino, come organo forcaiolo e padronale, con sfumature nero petrolio. Ai tempi della conduzione dell'amico Enzo Biagi (1970) ne era stato addirittura vicedirettore e vi aveva lavorato per oltre trent'anni fino al giugno 1981, prima come cronista di bianca, indi come critico cinematografico. Giudizio avventato nel primo caso, ed ebbi modo di ricredermi quando, alla metà degli anni '80, lo conobbi e lo frequentai in più occasioni.
Aperto al dialogo, era soprattutto uno che il cinema non solo l'amava ma si poneva al servizio di esso. Così come presidente da quasi vent'anni del Gruppo Fac (Film arte e cultura), come da molti anni direttore responsabile del mensile Cineteca, come capo ufficio stampa della Cineteca di Bologna, de L'Immagine Elettronica e della Mostra internazionale del Cinema Libero, come membro dal 1962 della Commissione Cinema del Comune di Bologna. Uno così non poteva non finire “eternato” in un film di Pupi Avati (nella fattispecie è il direttore di banca in Impiegati, 1984). E non poteva non essere, oltre che amico da sempre, estimatore di Fellini, cui ha dedicato vari libri fra cui Fellini Satyricon (Cappelli, 1969), Nel mondo di Federico (Nuova Eri, 1987) e L'inferno immaginario di Federico Fellini, a proposito de Il viaggio di G. Mastorna (Guaraldi, 1995).
Proprio da questo prezioso libretto possiamo trarre una curiosa confidenza fattagli dal regista su quel film sempre desiderato e mai realizzato, che sarebbe andato in controtendenza all'universo felliniano.
«Voglio abbandonare la realtà stilizzata, prefabbricata che perseguivo prima, per accettarla invece nella sua sciatteria, nella sua quotidianità più apparente. La non scelta diventa così una scelta ancor più sottile. Perché una scelta, si capisce, ci sarà sempre: quale autore potrebbe rinunciarvi? Ma la tentazione, stavolta, è di rendere inquietante a realtà più controllabile, più quotidiana. Niente di costruito in teatro di posa, dunque, tranne pochissime cose per ragioni pratiche. La stessa scelta delle facce deve avvenire in un'altra direzione. Sarà tutto dal vero, questo racconto. La scelta dei tipi diventa ancora più difficile: si tratta di scoprire una nuova espressività nel paesaggio umano, fatto non più soltanto dei visi-maschera cui ero abituato. Anche se poi il film, magari, non lo farò proprio così, la mia illusione del momento, il mio condizionamento psicologico è questo...»
E forse Fellini non sarebbe stato più lo stesso.