L'altra faccia delle lune

L'altra faccia delle lune

Un regista che sciolse il ghiaccio

«Si prendano i film di Čuchraj, un regista troppo noto perché ci si debba soffermare molto in questa sede. In lui ciò che appare schietto è proprio quella vena romantico-rivoluzionaria, forse lievemente anacronistica, un po' sentimentale, un po' enfatica, che, inestricabilmente arrotolata nei suoi stessi difetti, si fa fascino e freschezza dove la retorica sempre presente viene globalmente assorbita dalla piena insieme petulante e sincera dei sentimenti. Certo la retorica resta e anzi nell'ultimo C'erano una volta un vecchio e una vecchia (1964) riprende il sopravvento assieme a un forte scadimento turistico-parrocchiale della sua poetica umanitaria e a un falso compiacimento per una semplicità che non sembra più tanto naturale. Quel che è più discutibile in Čuchraj non è la dilatazione di un motivo sentimentale, ma la sovrapposizione di una faticata ricerca di espressione poetica, tesa quasi a riscattare una presunta povertà di contenuto: su questa via Čuchraj è giunto dopo Il quarantunesimo (1956) e La ballata di un soldato (1959), al quasi totale fallimento di Cieli puliti (1961), dove è evidente lo strangolamento formalistico di un discorso comunque vivo, ma necessario solo nei modo semplici e patetici del primo Čuchraj. Ma esempi di virtuosismo imbelle e di piccolo psicologismo espressivistico eran presenti sia nel Quarantunesimo, che resta il suo miglior film, sia in maggior misura nella Ballata di un soldato

Si deve al non mai abbastanza rimpianto Giovanni Buttafava, in questo lungo saggio su Il giovane cinema sovietico apparso su Bianco e Nero nel 1966, questo lucido quanto impietoso giudizio sull'ucraino Grigorij Naumovič Čuchraj, nato in questo giorno.

Eppure quel regista, allievo e poi assistente di Michail Romm e di Sergej Jutkevič, che inaugurò, provocando notevoli effetti anche sul “fronte occidentale”, il cinema del “disgelo” con Il quarantunesimo (premiato a Cannes), portò almeno da noi – insieme al Samsonov di La cicala (1955), al Kalatozov di Quando volano le cicogne (1957), ai Kulidžanov e Segel di La casa dove abito (1958), agli Alov e Naumov di Pace a chi entra (1961) – una ventata nuova, rafforzando il nostro contrastato amore per il cinema sovietico e insufflando qualche speranza per il futuro. Poi vennero appunto – a comporre una sorta di trilogia – Ballata di un soldato (premiato a Cannes e San Francisco) e Cieli puliti (premiato, finalmente a Mosca): tre film “timidi”, forse eccessivamente sentimentali ma decisamente “epocali” nel promuovere la nuova stagione poststaliniana.

Esaurito il suo compito, si dedicò soprattutto ad attività sperimentali nel settore della tecnica cinematografica ed elettronica. Pochi gli altri suoi film, tra cui sono noti in Italia C'erano una volta un vecchio e una vecchia (1964, passato solo nei cineclub) e il discutibile La vita è bella (1979, con Giancarlo Giannini e Ornella Muti). Non poteva finire peggio.

La notizia della sua scomparsa, avvenuta, ottantenne, il 28 ottobre 2001 venne stranamente ignorata da molta stampa nostrana (a cominciare da l'Unità, che pur contribuì a crearne il mito).