Muore a Roma, a 82 anni, per complicazioni polmonari, Alberto Sordi. Attivo nel cinema dal 1937, lo si conoscerà grazie a Mamma mia, che impressione! (1951) di Savarese (e De Sica) e, in particolare, a Lo sceicco bianco (1952) e I vitelloni (1953) di Fellini, ma anche a Un giorno in pretura (1953) e Un americano a Roma (1954) di Steno. Poco più che una macchietta, dicono alcuni.
Impossibile registrare i suoi oltre 150 film, di cui vanno almeno ricordati L'arte di arrangiarsi (1954, di Zampa), Lo scapolo (1955, di Pietrangeli), I magliari (1959, di Rosi), La grande guerra (1959, di Monicelli), Il vigile (1960, di Zampa), Tutti a casa (1960, di Comencini), Una vita difficile (1961, di Risi), Il giudizio universale (1971, di De Sica), Mafioso (1962, di Lattuada), Il maestro di Vigevano (1963, di Petri), Il medico della mutua (1968, di Zampa), Detenuto in attesa di giudizio (1971, di Loy), Lo scopone scientifico (1972, di Comencini), La più bella serata della mia vita (1972, di Scola), Un borghese piccolo piccolo (1977, di Monicelli), Il marchese del Grillo (1981, di Monicelli). A partire dal 1966 (Fumo di Londra) si improvvisa, rivelando sufficienti qualità, regista di se stesso: da citare, fra i 18 film da lui diretti, Polvere di stelle (1973), Finché c'è guerra c'è speranza (1974), In viaggio con papà (1982), Nestore - l'ultima corsa (1993).
Fin qui tutto bene, ma qualcuno comincia fargli credere che non è un semplice attore, ben dotato anche se spesso monocorde e sopra le righe. Accade nel 1979, quando allestisce per la Rai (Rete 2) i quattro cicli di Storia di un italiano, un'antologia di momenti dei suoi film alternati a spezzoni documentari dell'Istituto Luce (che nella mesta occasione il ministro Giuliano Urbani vorrebbe far proiettare in tutte le scuole): «A forza di sentirsi dire che il suo cinema rispecchia gli italiani, Sordi si convince di poter scrivere la sua Storia d'Italia, contrapposta a quella di Montanelli e a quella einaudiana» (Aldo Grasso).
Già, perché Sordi, e ben prima della sua scomparsa, è stato assunto a simbolo del carattere nazionale, con qualche elemento di verità (il parterre dei suoi personaggi ben rappresenta vizi e difetti del romano, che si vorrebbe identificare con l'italiano medio) ma anche con molti eccessi di valutazione, tanto che sono preferibili i suoi rari ruoli drammatici a quelli, tanto celebrati, del cialtrone, del ruffiano, del furbo, del pavido, dell'arruffone, del bieco e del cinico. Cerchiamo una via di mezzo tra il leghista Francesco Speroni (che lo definisce un trascurabile «provinciale») e i principali quotidiani che all'evento dedicano decine di pagine. Sta a vedere che, prima o poi, magari grazie al cardinale Camillo Ruini o all'amico Giulio Andreotti, suoi grandi estimatori, lo faranno beato?
“Santo subito!” paiono voler significare anche i 250.000 cittadini romani che affollano per le esequie piazza San Giovanni e dintorni. Peccato che il giorno successivo alla morte RaiUno per “onorarlo” mandi in onda l'ultimo film da lui diretto (Incontri proibiti ovvero Sposami papà, 1998), un pietoso flop, che però serve a giustificare la presenza della protagonista, Valeria Marini, all'immancabile puntata di Porta a porta. Quello che Albertone forse si merita.