Se la memoria non inganna, quattro film (oltre ad alcuni tv movies) si sono ispirati all'opera di Joseph Roth, scomparso in questo giorno a soli 44 anni.
Il primo, ancora in vita l'autore, è l'americano Sins of Man, diretto nel 1936 da Otto Brower e Gregory Ratoff e tratto dal romanzo Hiob. Roman eines einfachen Mannes (Giobbe). Il secondo è il tedesco Trotta, diretto nel 1971 da Johannes Schaaf, tratto dal romanzo-capolavoro Die Kapuzinergruft (La cripta dei cappuccini) e presentato a Cannes nel 1972. Entrambi non hanno lasciato molte tracce di sé. Il terzo è l'italo-francese La leggenda del santo bevitore, diretto da Ermanno Olmi nel 1988, tratto dal racconto lungo Die Legende vom heiligen Trinker e premiato con il Leone d'oro a Venezia: dolente, sofferto, dilatato, quasi iperrealistico, forse un po' troppo cattolico ai limiti dell'insopportabile. Il quarto è il tedesco La tela del ragno, diretto nel 1989 da Bernhard Wicki e tratto dal romanzo giovanile Das Spinnennetz: illustrativo, troppo dosato nei suoi vari elementi, sostanzialmente innocuo.
Un rapporto non facile e di conseguenza stupisce ancora di più la scoperta – dovuta alle certosine ricerche di Leonardo Quaresima e tradotta in un libro importante e delizioso, sin dal titolo, L'avventuriera di Montecarlo. Scritti sul cinema (1919-1935), pubblicato nel 2015 da Adelphi, l'editore italiano dell'opera omnia – di un Joseph Roth “critico cinematografico” o comunque interessato al senso e al linguaggio dei film.
Più che certi giudizi tranchant – ne fanno le spese Lang, Stiller, Dreyer, ecc. – su cui si è appuntata l'attenzione dei recensori, val la pena di rileggere il testo dedicato a un famoso film del 1924: «Il grande film artistico dell'anno è, in Germania, L'ultima risata. Ne è autore Carl Mayer, l'unico poeta del cinema tedesco. Sottolineo “poeta”, perché di gente che scriva e confezioni sceneggiature ce n'è a iosa. Ma Carl Mayer scrive film così come si compongono poesie, racconti, drammi. Vale a dire, trasferisce un soggetto dal piano materiale, terreno e casuale dell'“esistenza” e del “fattuale”, in un'atmosfera meta fisica, unica, autentica e necessaria. […] Al regista rimane relativamente poco da fare. Non potrà “comporre” in forma nuova l'immagine che lo sceneggiatore ha visto con tale chiarezza e descritto in modo così esplicito. […] Il regista dell'Ultima risata è Murnau. Era tempo che incontrasse il poeta Carl Mayer. Ne è nato un film in cui il regista e lo sceneggiatore si completano in modo perfetto. Murnau è uno dei pochi registi in cui la capacità di immedesimazione non è di pregiudizio alla volontà creativa. Se poi viene ad aggiungersi, come in questo caso, anche un operatore con le capacità visive di Karl Freund, pari a quelle di un poeta, ne nasce allora un film “artistico”».
Era critico, ma non criptico.