«Oggi il mio ex marito ed ex Superman sta per soccombere agli inevitabili assalti della mezz'età. Giunto alla pietra miliare dei cinquant'anni, un uomo introspettivo scende a un compromesso con se stesso, tira le somme di ciò che ha ottenuto e delle sue ambizioni, opera una distinzione tra realtà e sogno. Credo che la mente di Marlon non arriverà mai ai cinquant'anni, rimarrà perennemente quella di un bambino di nove anni. Ancora adesso si conta in pubblico i peli sul petto. Si atteggia tuttora a dio Priapo. Ma non è questo il Marlon Brando che vorrei ricordare. Il Brando che conta non è il paladino della giustizia sociale né l'immaturo recluso di Tahiti. Il Brando che conta è quello di Fronte del porto, il ribelle de Il selvaggio, l'uomo sensibile che soffre di fronte alla vera sofferenza. Spero che questo sia il Brando che riuscirà a sopravvivere a tutti gli altri e a trovare la sua destinazione prima che il Tram arrivi al capolinea.»
Questo l'impietoso ma presago ritratto che l'ex moglie Anna Kashfi (Brando a colazione, Sperling & Kupfer, 1981) traccia nel 1979 dell'attore più memorabile o almeno più singolare del secolo scorso, anche se le sue interpretazioni iniziali, pur da noi amatissime unitamente ad alcuni successivi exploit, risentono eccessivamente della formazione all'Actor's Studio e tutte risultano di un autodivismo vagamente ingombrante.
Nella sua filmografia restano indimenticabili – altrettante simbiosi – il paraplegico di Uomini o Il mio corpo ti appartiene (1950, Zinnemann), il rozzo lavoratore di Un tram che si chiama Desiderio (1951, Kazan), il rivoluzionario di Viva Zapata! (1952, ancora Kazan), il Marc'Antonio di Giulio Cesare (1953, Mankiewicz), il motociclista de Il selvaggio (1954, Benedek), lo scaricatore di Fronte del porto (1954, di nuovo Kazan). Bei tempi, tempi meravigliosi.
Lo si ama, appunto a quei tempi, per Bulli e pupe (1955, Mankiewicz, ove canta con voce flebile lo struggente A Woman in Love), per il coraggioso La caccia (1966, Penn), per il pur improbabile La contessa di Hong Kong (1967, Chaplin), per il fosco Riflessi in un occhio d'oro (1967, Huston), per il tumultuoso, registicamente parlando, Queimada (1969, Pontecorvo).
Poi, negli anni '70, gli accennati exploit a livello internazionale: dall'epocale Il padrino (1972, Coppola) allo “scandaloso” Ultimo tango a Parigi (1972, Bertolucci), dal troppo trascurato Missouri (1976, Penn) al capolavoro di Apocalypse Now (1979, Coppola), l'ultima volta che lo abbiamo amato sino in fondo.
Regista di un unico casuale film, I due volti della vendetta (1960), Brando continua a interferire con il cinema, ma triste è il suo declino, intrecciato a tragedie familiari (un figlio omicida, una figlia suicida) e a partecipazioni annunciate, ben pagate e spesso deludenti. Sui titoli è meglio sorvolare. Da tempo decisamente sovrappeso e forse un po' bolso, Marlon (si perdoni la battuta) fa comunque pesare da decenni il suo apporto: forse senza di lui – che, per dirla alla Martin Scorsese, «inventa un nuovo modello di divo, con una sessualità al di là della divisione uomo-donna» – il cinema sarebbe stato diverso.