Giorno propizio, quello di oggi, il 130° dell'anno (131° nei bisestili: il 1864 lo era, il 1902 no) per il venire alla luce di futuri titani dell'industria dello schermo. Nell'anno più lontano nasce a Parigi Léon Gaumont (morirà ottantaduenne nel 1946); in quello meno distante, a Pittsburgh (Pennsylvania), David O. Selznick (chiuderà la partita ad Hollywood a soli 63 anni, nel 1965).
Storicamente basilari entrambi, nei loro apporti: pioniere decisivo il primo, nella tecnica, nella realizzazione di film determinanti di Cohl, Feuillade e Feyder negli anni Dieci, nelle intuizioni pionieristiche di possibili raccordi tra produzione, distribuzione ed esercizio (lo splendore dei 3.400 posti del Gaumont Palace inaugurato a Parigi nel 1911). Gli si debbono due stupendi Hitchcock inglesi, Il club dei 39 e La signora scompare.
La leggendaria margherita stilizzata fino all'astrazione del suo logo era tornata in modo pretenzioso ma effimero ad affacciarsi anche in Italia tra gli anni Settanta e gli Ottanta, ai tempi di Daniel Toscan du Plantier (1941-2003), che aveva affiancato Nicolas Seydoux (il prozio della stupenda Lea di Bastardi senza gloria e de La via di Adele, per limitarsi ai vertici) nella direzione aziendale, portando idealisticamente in catalogo anche Bresson, Fellini, Bergman, Herzog, Tarkovskij, Pialat, Goretta, Wajda, Greenaway, Satyajit Ray, Monteiro, e via dicendo, oltre alla bravissima consorte Francesca e all'immenso suocero Luigi Comencini: hai detto niente...?
A Selznick si devono, tra l'altro, l'ingresso nel cinema di Fred Astaire, l'inarrivato La pericolosa partita e il primo King Kong di Schoedsack, alcuni tra i più importanti film di Cukor, il Wellman di E' nata una stella e il Cromwell del Prigioniero di Zenda, l'arrivo di Hitchcock dall'Inghilterra e i suoi primi film hollywoodiani, ma soprattutto le due straordinarie, irripetibili e irripetute vette folli di Via col vento e di Duello al sole.
Credo di aver cominciato ad amare il cinema nell'infanzia remota, senza averlo di fatto ancora quasi mai frequentato nella realtà, sentendo assorto e rapito l'infinitamente reiterato racconto delle due rispettive trame dalla nostra amatissima colf di allora, che si chiamava Ebe Spaventi. Quando - molti anni dopo - li vidi per la prima volta, quasi nulla mi sorprese, se non l'erotismo assoluto e infinito del finale nel secondo... E i due addii prematuri alla produzione, entrambi in terra italiana, con la malinconia soffusa ma già allora percettibile tanto in Stazione Termini di De Sica che nel successivo e conclusivo Addio alle armi di Charles Vidor.