«Il termine back mi attira. Sfoglio il dizionario angloamericano, lingua (anzi lingue) quanto mai perfida, ideologie a parte: avete mai visto un linguaggio che non ha nessuna certezza di pronuncia, e se ne va come gli pare? Proprio come Blair e Bush. Back, secondo l'autorevole Hazon-Garzanti, come aggettivo, sostantivo, avverbio, verbo o prefisso (ma come sono monotoni), sta per un'infinità di cose: come posteriore, di dietro (in tutti i sensi: e ora che viene la primavera e sbocciano le fanciulle in attillati e guizzanti jeans non c'è bisogno di esprimersi oltre), dorso, schiena, spalle (saranno eufemismi?), e poi schienale, rovescio, sfondo, e ancora fare indietreggiare, muovere indietro, sostenere, spalleggiare, appoggiare, accompagnare, fare marcia indietro, e via backeggiando (sembra quasi un manuale di pratiche e tecniche erotiche). Ma andiamo ai prefissi: backbencher è un parlamentare senza incarico (noi li chiamiamo peones), backbiter è un calunniatore, backfire è un ritorno di fiamma, backhander è la bustarella, backscratcher è un leccapiedi, backslapper è una persona che si prende troppa confidenza, tipo dare pacche sulle spalle (o, è capitato al terzo B., fare le corna dietro la testa di qualcuno), backwash è un riflusso, backwater è una situazione stagnante, e il tutto sembra il panorama politico italiano. Che sia guidato, come sempre, dagli americani?
«Ma veniamo al cinema. Così come the voice è per antonomasia il soprannome di Frank Sinatra, the back è l'esplicita definizione, tra il mirabile e il volgare, di una o più attrici hollywoodiane, a cominciare, salvo errore, da Betty Grable per continuare con Marilyn Monroe e Angie Dickinson (ma il dibattito è aperto). Noi non siamo mai arrivati a tanto, tutt'al più ci siamo limitati all'espressione “che bel culo!”. Qualche volta anche incorrendo in errori marchiani (o chiappani) come ammirare nei dettagli di Malèna (2000, di Tornatore) le ben tornite rotondità di una controfigura spacciate per quelle di Monica Bellucci (così almeno vuole il gossip).
«Siamo più seri. In campo cinematografico affascina il termine backlot che identifica lo spazio aperto sul retro degli studios delle majors (il “cortile”) destinato a ricostruzioni, talora semipermanenti e utilizzate più volte, al servizio della finzione. Senza muoversi da casa, senza complicate trasferte in esotiche location, senza affrontare pericoli e disagi era possibile evocare in modo più o meno attendibile e credibile (sempre meglio delle analoghe falsità operate all'interno degli studios) lontani ambienti e atmosfere: boschi e giungle, deserti e paludi, prati fioriti e ruscelli. Ricostruzioni da non confondere con le costruzioni, che ancor oggi (vedi Cinecittà) si fanno negli spazi esterni, ma sono un'altra cosa.
«Ma un diverso back affascina ancora di più ed è il backstage, un fenomeno sempre più diffuso al punto di meritarsi un piccolo ma fortunatissimo festival, il Backstage Film Festival, a Cesena. [...] Ora si dà il fatto che il backstage assuma significato di vera e propria forma d'arte autonoma. Volonterosi e abili giovanotti si aggirano sul set, ora incaricati in proposito dalla produzione, ora appena tollerati, qualche volta servili, qualche volta indiscreti ma quasi sempre capaci di rendere il senso del lavoro, l'atmosfera regnante, le difficoltà obiettive, e di realizzare un film nel film, un film sul film, un film pro o più raramente contro il film. Sapete che cosa accade? Che spesso il loro prodotto è superiore all'oggetto di riferimento. Che il back vale più dello stage. Nell'iperbole una perfetta metafora del nostro tempo» (autocitazione da Duellanti, aprile 2006).