Un po' provocatoriamente, anziché celebrare la caduta del muro di Berlino, il cui venticinquesimo anniversario ricorre in questi giorni, ci occupiamo della “caduta di Berlino” tout court, attraverso l'omonimo e molto discusso film e la recensione di Ugo Casiraghi apparsa su Il Calendario del Popolo, mensile comunista di divulgazione culturale, e che ben riflette il clima dei primi anni '50. Anch'essa prossimamente raccolta nell'e-book Il cinema del Calendario.
«È noto a tutti il vivo, profondo successo popolare ottenuto in Italia dal film Giuramento, del regista georgiano Ciaureli. Ebbene, immaginate un film dello stesso regista,sempre con la figura di Stalin al centro dell’opera. Ma un film i cui pregi siano gli stessi, elevati all’ennesima potenza. Lo stesso stile epico, ma ancor più maestoso, solenne e “realistico”. Non più pellicola in bianco e nero, ma (come i sovietici usano in tutte le ultime produzioni) colori impiegati in modo magistrale; non certo come fanno gli americani nei loro technicolor sempre più discutibili. Cioè colori che servono a rendere più espliciti, più evidenti i personaggi e la dialettica del soggetto del film. Così come, del resto, la musica stupenda di Sciostakovic.
Un film che dice l’ultima parola in fatto di tecnica cinematografica applicata in funzione artistica: l’uso del sonoro, le truccature degli attori russi – uno dei quali, Saveliev, deve impersonare Hitler –, le scenografie ricostruite di Berlino in fiamme e sotto il tiro delle artiglierie sovietiche. E poi, oltre tutto, pensate a un tema formidabile: il tema della lotta e della vittoria di un popolo che è stato assalito nella sua terra, nei suoi affetti più profondi, nella sua stessa vita, e trova in sé la forza di liquidare gli aggressori nella loro tana, cioè fin nell’orribile bunker della Cancelleria, dove Hitler, Eva Braun e gli ultimi fanatici gerarchi si rifugiano terrorizzati in attesa del castigo che tutti i popoli del mondo loro infliggono, la punizione della storia. E nonostante le cannonate, le distruzioni, i massacri, nonostante le sofferenze e la disperazione, un appello alla pace che si eleva dalle ultime inquadrature del film, quando Stalin, in divisa bianca, con parole calme e pacate, definisce il senso della caduta di Berlino, e invita tutta la gente semplice e onesta a individuare i germi del fascismo aggressore, a schierarsi contro di essi in nome della civiltà e della felicità dei popoli.
Immaginate la freschezza e l’ingenuità delle scene iniziali che rappresentano l’esistenza gioiosa del popolo sovietico, l’amore di un operaio metallurgico e di una maestrina, la soddisfazione di ricevere i premi del lavoro; e poi le visioni angosciose dell’aggressione nazista a tradimento, la guerra che devasta i campi e le città e sgretola le famiglie, la decisione e la fermezza di resistere alla forza bruta, e quindi di reagire. E man mano che procede la vittoriosa avanzata sovietica – anche senza l’appoggio degli alleati – l’ira furibonda, il terrore, la volgarità, la meschinità, la pazzia che si dipingono sul volto di Hitler; e, per contrasto, la ponderata saggezza dei capi militari e politici, ai quali la storia deve l’espugnazione della maledetta roccaforte europea.
Immaginate tutto questo, e non avrete che una pallida idea della grandiosità epica e umana del film La caduta di Berlino, primo premio assoluto al Festival di Karlovy Vary in Cecoslovacchia, opera monumentale nella storia dell’arte cinematografica, una delle conquiste più alte del cinema sovietico e mondiale. Quando si vedrà in Italia quest’opera ricca di tante bellezze artistiche, e che aiuta il popolo a riflettere sul problema essenziale del momento: la guerra o la pace?»
Viene voglia di rivederlo.