Pordenone e 32^ Giornate del Muto («con amor de loinh») [I].
Addolorato di non partecipare di persona per il secondo anno consecutivo, il lunista in seconda segue nostalgicamente a distanza questa ennesima edizione del festival di cinema più bello, culturalmente necessario e umanamente simpatico e accogliente che si tiene certo in Italia, forse in Europa, non so nel mondo. Ma lo sanno certamente - e lo dimostrano nel concreto degli atti - le centinaia e centinaia di accreditati da ogni continente che ogni anno, affrontando viaggi lunghi, disagevoli e costosi, con puntualità cronometrica riguadagnano il ridente centro friulano dando prova di immutabile, granitica fedeltà.
Chi scorra l'elenco dei donors della precedente edizione in ogni nuovo catalogo annuale della rassegna, ci legge il fior fiore della cultura e della storiografia cinematografiche mondiali (e persino qualche raro italiano, sempre gli stessi da anni e anni a questa parte). La tomba di Pasolini è a un tiro di schioppo, sotto la grande pianta a destra del cancello, nel camposanto di Casarsa della Delizia: e la sua lontana dedica a Gianfranco Contini, colma di gratitudine per l'inattesa recensione di “Primato”, consacrante le “Poesie a Casarsa” di un ventenne sconosciuto, ben si adatta allo stato d'animo di chi scrive in questo momento. Rivedendo con gli occhi della mente figure indimenticabili di maestri anche loro annualmente pordenonesi: Davide Turconi, Vittorio Martinelli, Piero Tortolina, Mario Quargnolo. Persone che magari riuscivi a rivedere solo lì una volta l'anno, ma dalle quali imparavi a distanza, grazie alla scrittura, ogni giorno.
Avendo goduto dell'immeritata ventura di essere testimone giornaliero del nascere delle Giornate (come tanti altri amici: uno per tutti, lui anche direttamente coinvolto, Carlo Montanaro) lo rievoco per accenni, grazie alle parole di un'altra diretta partecipe che non può più farlo di persona. In un brano riferito a chi fu all'origine dell'intera impresa, Angelo Humouda, con la sua Cineteca “D.W. Griffith” dal 1973 a Genova, e alla malinconica fine del suo sogno personale:
«Lo choc del terremoto del Friuli, l'esse-o-esse da Gemona, lo straordinario modo “politico” e umano integrale, che Angelo aveva nel rispondere a queste cose: il primo salire di Livio e Piera in via Luccoli 1, immerso in quell'atmosfera elettrizzata che la memoria, e prima di lei l'intuizione, sanno conferire, per fortuna immediatamente, agli incontri con le persone che capisci subito riguardare anche te e la tua vita. […]. L'unica oasi restò sempre Pordenone. Lì si era sicuri di rivedersi ogni anno […]. Memori della grandezza didattica di Angelo in tanti corsi, stringeva il cuore vederlo fermo, muto, a contemplare da solo il Verdi dal di fuori, quasi tracciasse un bilancio mentale di tutta la storia. E c'era, impercettibile, nell'aria, in quella “felicità pordenonese” che ci aveva fatto presentire e trasmesso prima ancora che l'avventura delle Giornate del Muto avesse inizio, la speranza che tutto potesse ricominciare, e lui ritrovasse l'intercalare proverbiale che ci ossessionava fino alla ribellione negli anni buoni, a sigillo d'ogni altra sua progettualità fluvialmente illustrataci: “A questo punto interviene la Griffith”». (Giuliana Callegari, “A questo punto interviene la Griffith”, «Griffithiana», numero fuori serie in memoria di A.R. Humouda, aprile 1995; poi in Id., Cinema addio. Pagine ritornate 1975-1997, Falsopiano, Alessandria.
Così la memoria può tornare alla prima edizione, 9-11 settembre 1982, con Turconi che presentava orgogliosamente a tutti nella hall dell'hotel Moderno un giovanissimo che sarebbe diventato Paolo Cherchi Usai, e, ad esempio, «Jean Mitry, innanzitutto: nessuno di noi avrebbe potuto immaginare di averlo in carne e ossa, indimenticabile commensale-maestro, in quelle prime, magnifiche e austere prime edizioni di Pordenone, in cui il limitatissimo numero di ospiti li portava alla quotidiana consuetudine conventuale dei pasti consumati tutti insieme alla medesima tavolata del ristorante “Noncello”». Che da moltissimi anni, anch'esso non c'è più, e portava il nome del dolcissimo corso d'acqua che bagna Pordenone passando sotto il “Duomo di San Marco”.