È il giorno della scomparsa decisamente prematura, a Beverly Hills, di Gary Cooper: era infatti nato a Helena (Montana) poco più di sessant'anni prima, il 7 maggio 1901.
Una carriera incomparabile, quasi quarantennale, con le radici affondate nel muto (dal debutto non accreditato de L'Aquila,1924, di Clarence Brown, protagonista Rodolfo Valentino, ad Ali di Wellman tre anni dopo), conclusa appena prima di morire con l'estremo Il dubbio di Michael Anderson, destinato a uscire postumo.
Tralasciando la tradizionale, inevitabile sfilata cronologica di titoli illustri, basterà ricordare che, spaziando tra i generi (ed eccellendo nel western nella fase matura della progressione) Cooper sarebbe stato diretto almeno una volta quando non di più, via via, tra gli altri, da Sternberg, Borzage, Mamoulian, Lubitsch, Hawks, King Vidor, DeMille, Capra, Milestone, Wyler, Wood, Fritz Lang, McCarey, Delmer Daves, Curtiz, Heilser, Walsh, de Toth, Zinnemann, Aldrich, Preminger, Wilder e Rossen. Quanti altri potrebbero competere con un simile percorso?
Il verso da cui proviene il titolino fa parte dell'inconsueto poemetto in memoria di Anthony Mann, all'indomani della sua scomparsa nel '67, che Gianfranco Albano avrebbe pubblicato nel '67 su “Cinema & Film”, parlando perfettamente, con evidente riferimento a Dove la terra scotta (1958) del “volto senza innocenza mai di Gary Cooper”.
Mariapaola Pierini, dopo un lavoro documentario immane svolto sulle fonti originali negli Stati Uniti, ha pubblicato su di lui con Le Mani uno dei più bei libri di cinema mai apparsi in lingua italiana, raddoppiando con una relazione esemplare al convegno A spasso tra divi e divine, organizzato dalla Federazione della nostra rivista a Bergamo lo scorso settembre.