Ci sono, nel cinema italiano del dopoguerra, registi di vaglia completamente dimenticati o rimossi, anche se al loro tempo hanno riscosso un buon riscontro di critica e di pubblico, e i loro film si elevavano, e non poco, sopra la media. Uno di questi casi è costituito dal grossetano Giuseppe Bennati (1921-2006), che meriterebbe una sua piccola retrospettiva.
Quattro film, tutti su suo soggetto e/o sceneggiatura, in meno di un decennio.
Si comincia con Musoduro (1953), che intanto è il primo film italiano a colori girato quasi per intero in esterni e, presentato come “il primo western del cinema italiano”, racconta del conflitto, in una Maremma splendidamente raffigurata (come lo è Marina Vlady), tra un cacciatore di frodo e un guardacaccia.
Si prosegue con La mina (1957), contemporaneo, e anche più credibile, del meglio celebrato La grande strada azzurra di Pontecorvo, sull'ambiente, questa volta, dei pescatori di frodo.
Segue Labbra rosse (1960), contemporaneo, e anche più intrigante, del chiacchierato Dolci inganni di Lattuada, sui rapporti sessuali tra ninfette e persone mature (per non dire che precede di due anni la Lolita di Kubrick).
Conclude Congo vivo (1961), lucida analisi dei problemi africani dopo la decolonizzazione e, come il precedente, anticipatore di molti temi del cinema critico sulla società di quegli anni.
Un precursore subito rimosso e poi lasciato a margine? Ma, ciliegina sulla torta, gli si deve anche l'indimenticabile Marcovaldo (1970), la serie tv interpretata da Nanni Loy e ispirata ai racconti di Calvino. Un piccolo grande autore.