«Più la storia dei film sarà vera (naturale) e più veri e naturali dovranno sembrare la recitazione, il trucco, i costumi, le luci, l'architettura. Il segreto della recitazione cinematografica sta in una parola che sembra detta naturalmente mentre è recitata. Per la stessa ragione pioggia, neve, vento nel cinema non sono, di solito, pioggia, neve, vento naturali. (E così gli ambienti, i mobili, i vestiti, le luci.) Questa naturalezza non tende a modificare la realtà (madre del cinema) ma a riprodurla. La Natura, fotografata come è, non assomiglia a se stessa. Per questo c'è chi non vorrebbe mai uscire dal teatro, disposto a ricostruire anche il mare, anche il deserto; nemico del documentario che molti confondono con il cinematografo ma che invece col cinematografo ha in comune solo la macchina.»
Così parlò, nel suo prezioso Taccuino dell'aiuto-regista (Hoepli, 1944; oggi opportunamente ristampato da Ponte alle Grazie), singolare ma puntualissimo vademecum per la professione, magistralmente impaginato da Bruno Munari, il comasco Aldo Buzzi, scomparso, quasi centenario, in questo giorno.
Architetto non praticante («Ho lasciato l'architettura perché non mi andava di dover scendere a patti con i capricci dei clienti», confesserà a Paolo Mereghetti in un'intervista del 1998), autore in età avanzata di preziose e raffinate brevi opere letterarie (L'uovo alla kok, 1979; Cechov a Sondrio, 1991; Stecchini da denti, 1995; La lattuga di Boston, 2000), che gli assicurano stima e successo presso un pubblico altrettanto raffinato, pratica in età giovanile il cinema, quasi sempre al fianco di Alberto Lattuada.
Dirà nell'intervista a Mereghetti: «Di solito uno non dice di voler fare il caporale ma il generale di corpo d'armata: io no, preferisco fare l'aiutante», e mantiene l'impegno. Per intanto sua compagna (di sempre e per cinquant'anni) sarà la sorella di Alberto, Bianca (1912 -2005), celebrata direttrice di produzione, la prima in Italia. Ed eccolo sceneggiatore di Giacomo l'idealista (1943) e L'imprevisto (1961), sceneggiatore e costumista per Luci del varietà (1950), e – appunto – aiuto-regista per sette dei suoi film, sino a La steppa (1961). Ma collabora anche con Comencini (Proibito rubare, 1948), con Zampa (Cuori senza frontiere, 1950) e con Gora (Febbre di vivere, 1951). L'impegno non lo mantiene quando, nel 1955, insieme con Federico Patellani, scrive, dirige e monta il suo unico lungometraggio: America pagana, un documentario in Ferraniacolor sui resti della civiltà Maya e sull'attuale realtà del Sudamerica, ma per sua fortuna sono in pochi ad accorgersene.
Di lui, che sarà anche uomo di editoria, presso Rizzoli, non sono da dimenticare i libri di cinema curati per la “Cineteca Domus in volumi” (film di Max Linder, Larry Semon e Jacques Feyder, 1945) e per Poligono (Vampyr di Dreyer, 1948), che saranno motivo di un nostro incontro nel 1999, alla ricerca di informazioni sulle pubblicazioni cinematografiche di quel periodo. Lo si ricorda schivo e burbero, beffardo e impenetrabile, come si attaglia a un grande (per pochi). E si può condividere quanto di lui scrisse Antonio Gnoli in morte: «Mi ricevette nella penombra di una casa spoglia e un po' triste. Di uno che era stato architetto, che aveva lavorato nel cinema e soprattutto aveva reso felici con i suoi libri una piccola e selezionata schiera di lettori, immaginavo un'abitazione ricca di testimonianze, di cimeli, di storia. Credo che intuì dal mio sguardo cosa mi passasse per la testa. Disse: “Non la vorrei deludere. È una casa che si è svuotata progressivamente. Un'abitazione piena di buchi come la memoria di un anziano”. Lo disse sorridendo, quasi non credendoci».