Chi avesse conosciuto Alberto Cavallone a Milano nei primi anni '60 si sarebbe imbattuto in un ragazzo esile, nervoso, timido e intraprendente al tempo stesso, pieno di ottimi propositi, che aveva una gran voglia di fare cinema, ma anche di cambiare il mondo. Un suo coetaneo, critico in erba, ne seguì, quasi ne promosse, le prime prove: un bel (ma scomparso) documentario sui crimini nazisti, denunciati in un processo a Francoforte (Lontano dagli occhi, 1962), e un ottimo (ma non più rintracciabile) mediometraggio di attualità e di montaggio sull'Algeria (La sporca guerra, 1960-63, commento di Giovanni Arpino, pubblicato addirittura su Cinema Nuovo).
Di lì, con ancora negli occhi gli orrori del nazismo e del colonialismo, entrambi ammantati di razzismo, il passaggio alla fiction a lungometraggio, di cui il nostro segue le due prime prove: Le salamandre (1969), genere lesbico-contestatore, e il più rozzo ma più veritiero Dal nostro inviato a Copenaghen (1970) sulle malefatte di due reduci dal Vietnam (un altro leit-motiv) e sulla loro “rieducazione”. Ma l'ossessione continua, perdendo di attrattiva per il non più giovanissimo critico, che segue alla distanza il succedersi affannoso delle pellicole, dall'erotismo contorto che non riesce a essere pornografico, e che cela una vocazione all'autodistruzione, da vero e proprio maudit, ispirato com'è alla maniera di Georges Bataille (il sesso, motore dominante dell'uomo, identificato con l'idea di castrazione, di annientamento e di morte).
Oggi, a 17 anni giusti dalla scomparsa del vecchio amico, il vecchio critico si è guardato, sul provvidenziale YouTube, Quickly (1971), Afrika (1974), Zelda (1975), Spell. Dolce mattatoio (1977), Blow job (1980) spingendosi fino a I padroni del mondo (1983), mancandogli soltanto Blue movie (1978) e – come a tutti – lo scomparso o introvabile Maldoror (1976, da Lautréamont), che le fanzines salutano come il suo possibile capolavoro. Ma, ahimè, non ne è uscito convinto. L'ambiziosa (Cavallone scrive, dirige e monta tutto da solo) via freudiano-surrealista si traduce in incerte riprese con camera a mano, interpretazioni solo volonterose (a cominciare dall'onnipresente Maria Pia Luzi, in arte la lautrechiana Jane Avril, sua compagna anche nella vita), dialoghi verbosi e filosofeggianti con punte di retorica dannunziana. E le storie rasentano il (voluto?) ridicolo. Solo il nervosissimo montaggio, con predilezione per i dettagli, salva qualche sequenza.
Spiace per i colleghi di Nocturno, ma non si riesce a vedere in lui un regista di culto. Solo un uomo turbato e infelice, come il ragazzo di cinquant'anni fa.