«Con frasi rotte, Luigi Pavese mi spiegò che stava girando un film tratto da I miserabili di Victor Hugo, diretto dal regista Riccardo Freda con attori del calibro di Gino Cervi, Valentina Cortese e di lui stesso. La lavorazione era iniziata tre settimane prima nei teatri di posa del Centro Sperimentale di Cinematografia. Tergendosi il sudore dalla fronte, aggiunse sconvolto che quella stessa mattina, al teatro 1 dove si apprestavano a girare l'importante scena di Jean Valjean che rubava i candelabri d'argento del vescovo Myriel, si erano accorti che... Lo interruppi: “...che vi erano stati rubati i candelabri. È così?” Scosse la testa: “No, no, nessuno ha rubato i candelabri, ma qualcuno ha ucciso un uomo e ha nascosto il cadavere nella cassapanca dei candelabri!” precisò il povero Pavese con voce strozzata.
È il primo dei numerosi colpi di scena di Il clan dei Miserabili, quinta avventura – dopo Delitti a Cinecittà (2008), Terrore ad Harlem (2009), Morte al Cinevillaggio (2010), Scalera di sangue (2011), Spiaggia a mano armata (2012) – dell'investigatore privato antifascista Bruno Astolfi, creato dalla penna di Umberto Lenzi, esordiente giallista all'età di 77 anni (altro che Camilleri, il cui Montalbano nasce quando l'autore di anni ne aveva appena 69).
Non mancano i polizieschi ambientati nel mondo del cinema, a cominciare dal grande Stuart Kaminsky con il suo Toby Peters, scalcagnato private eye della Hollywood degli anni d'oro, e anche in Italia si sono avuti esempi autarchici sin dagli anni '30, ma nessuno può vantare una conoscenza diretta e approfondita dell'ambiente come Lenzi. Sì, perché – per chi non avesse ancora ricostruito l'abbinamento – lui è proprio l'anarchico e poliedrico regista che ha percorso quasi ogni genere del nostro cinema, seguendo e interpretando a modo suo l'onda del momento, dal lontano Le avventure di Mary Read (1961) a Hornsby e Rodriguez – Sfida criminale (1992), e in mezzo trovano posto altri 67 film, salvo errori od omissioni.
Accanto a pellicole passate quasi inosservate, stanno titoli di grande successo di pubblico (la critica, salvo quella delle fanzines, non gli dedica molta attenzione) e non privi di motivi di interesse anche per i più scettici, quali Milano odia: la polizia non può sparare (1974), Roma a mano armata (1976), Napoli violenta (1976), per restare nel poliziottesco. Ma si fa anche ricordare, ad esempio, per la trilogia del “giallo erotico italiano”, o “thriller dei quartieri alti”, composta da Orgasmo (1969), Così dolce... così perversa (1969) e Paranoia (1970), interpretata dall'ex stella hollywoodiana Carroll Baker, o per il curiosissimo Il grande attacco (1976), girato in mezzo mondo, ove dirige nientemeno che Henry Fonda e John Huston, o per aver creato il personaggio di er Monnezza, prima che Tomas Milian lo tradisse, o quello dell'onesto commissario interpretato da Maurizio Merli, o infine per l'horror Incubo sulla città contaminata (1980), film in particolar modo venerato da Quentin Tarantino, lui che a sua volta si pone come maestri Raoul Walsh e Sam Fuller.
Mentiremmo se sostenessimo di averlo, a suo tempo, apprezzato, ma ci porta a riconsiderare il regista l'ammirazione incondizionata per lo scrittore, che dei film polizieschi conserva solo una certa ironia, mentre nei libri ripudia ogni durezza o gratuita violenza, muovendosi con acume misto a qualche voluta sprovvedutezza in un mondo che continua ad affascinarci. Dal cinema dei telefoni bianchi a quello di Gallone (Harlem), da quello di Salò trasferito alla Giudecca agli studios della Scalera, dalla pineta di Tombolo appunto al set dei Miserabili, non solo costruisce trame ben oliate ma riesce anche a rievocare, con qualche sorpresa, nomi noti e meno noti dell'anteguerra e del primo dopoguerra. Un bell'album, ma non solo di figurine.