«Il telefono nella sua camera da letto emise un ronzio sommesso. Era uno di quegli alberghi in cui si tende a non allarmare i clienti, ma a metterli sull'avviso con discrezione. L'uomo uscì in fretta dalla stanza da bagno chiudendosi la lampo dei pantaloni. “Jon? Sono la vedova di Hugo. Come stai?” “Perfettamente bene. Adesso. Sono reduce da un incontro estenuante per la mia sceneggiatura.” “Ho scelto un brutto momento per chiamarti?” “Al contrario. Il momento è ottimo. Ho appena fatto pipì. Mai sentito meglio.”»
È il sorprendente incipit di West of Sunset, un romanzo del 1984 pubblicato nel 1995 con il titolo A ovest del Sunset Boulevard da Longanesi, che già aveva tradotto nel 1993 Fratelli di odio. E l'autore è un attore datosi alla scrittura (sette romanzi, un'autobiografia in quattro volumi, un epistolario) dopo aver abbandonato, non senza qualche dissidio, il cinema: Dirk Bogarde, nato in questo giorno.
Una vera e propria sorpresa, pari a quella accaduta a chi lo aveva visto da vacuo e belloccio protagonista della troppo fortunata serie aperta da Quattro in medicina (Ralph Thomas, 1954) mutarsi in dolente interprete del ruolo, quasi autobiografico, dell'avvocato omosessuale in Victim (Basil Dearden, 1961). (Per inciso, il movimento d'opinione creatosi dopo il film e grazie alla sua performance costringerà il Parlamento britannico a cancellare alcuni reati legati all'omosessualità).
Un pubblico abituato all'eroe comico-romantico scopre in lui un “attore pensante”, destinato ad assurgere a cult. Basterebbe ricordare il suo sodalizio con Joseph Losey (Il servo, 1963; Per il re e per la patria, 1964; L'incidente, 1967) e con Luchino Visconti (La caduta degli dei, 1969; Morte a Venezia, 1971) o i suoi contributi a Il portiere di notte (1974, di Liliana Cavani, che sopporta con qualche fastidio), a Providence (1977, di Alain Resnais, di cui apprezza l'incorporeità), a Despair (1977, di Rainer Werner Fassbinder, che gli crea qualche dispiacere), a Daddy Nostalgie (1990, di Bertrand Tavernier, che ha il merito di riportarlo al cinema).
Derek Niven Van den Bogaerde mantiene sino alla fine – anche dopo l'ictus che nel 1991 lo priva della mobilità e della parola – una lucida presenza, confermata nel 1998 dalla sua battaglia a favore dell'eutanasia.