Marlon Brando? «Sembra un salsicciotto. Una scarpa fatta di carne.» Laurence Olivier? «È un beota. Sul serio.» Charlie Chaplin? «Per molti aspetti, fondamentalmente cretino.» Humphrey Bogart? «Un vigliacco, e non sapeva picchiare. Un altoborghese che cercava di fare il duro.» Van Johnson? «Fa pietà. Di solito gli uomini diventano più belli, invecchiando. Lui è quel tipo di checca che non migliora.» Elia Kazan? «Ha la faccia che si merita. Una faccia che si va trasformando in un rostro. Sì, un rostro, è proprio un rostro.» Alfred Hitchcock? «Pigro e megalomane. Si addormentava mentre uno gli parlava.» John Landis? «Pezzo di merda fatto e finito.»
Chi altri se non Orson Welles poteva esprimere questi caustici giudizi (ora raccolti nel delizioso A pranzo con Orson. Conversazioni tra Henry Jaglom e O.W., a cura di Peter Biskind, postfazione di Tatti Sanguineti, Adelphi, 2015)? In questa silloge manca soltanto Pauline Kael, la più detestata, et pour cause, cioè colei passata alla storia per la sua netta presa di posizione sulla vexata quaestio della vera paternità di Citizen Kane (1941): non dalla parte di Orson Welles, bensì da quella del suo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz.
Nata in questo giorno (scomparirà il 3 settembre 2001), Pauline, come il personaggio di Pearl White, eroina dei perils di tanti cliffhangers, amava il rischio, implicito specie per una donna, di esercitare in altri tempi la critica cinematografica, ma lo corse per quasi trent'anni da un pulpito sin troppo rispettato, quello del settimanale radical-chic The New Yorker, tanto citato, benché raramente letto, anche in Italia.
Così che la si ricorda come recensore schierato a favore, più che di precise idee, di ben determinati registi (Scorsese, Altman, Spielberg) e attori (in genere quelli usciti dall'Actor's Studio), specie all'inizio delle loro poi celebrate carriere. La sua scrittura, venata di spunti intellettuali e di perfide arguzie, le aveva procurato molti avversari nel mondo del cinema, ma anche molti fans (che si autodefinivano paulettes) nella cerchia dei numerosi lettori. Roba da far invidia – invano – a una certa Natalia Aspesi.
Sulla critica cinematografica statunitense abbiamo idee piuttosto confuse, ma quel che è chiaro è che essa è funzionale alla macchina, si tratti degli estensori confindustriali di Variety o di Leonard Maltin, inventore (1969) delle recensioni in pillole (spesso al limite del ridicolo) raccolte in volume; del celebre Bosley Crowther, critico del New York Times per 27 anni, cui devono il successo molti attori e registi, a cominciare da Marilyn Monroe, o, appunto di Pauline Kael.
Un solo nome forse sfugge alla regola: quello di James Agee, critico di Time dal 1942, poi di The Nation, infine dal 1948 freelance per Life, famoso per la sua difesa dello “scandaloso” Monsieur Verdoux, ma anche storico del muto e sceneggiatore (L'escluso, 1948, di Sidney Meyers; La regina d'Africa, 1951, di John Huston; La morte corre sul fiume, 1955, di Charles Laughton). Ma, come chi sfugge alla regola, morirà ancora giovane, poco più che quarantenne.
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