Muore a Seriate (Bergamo), all'età di 86 anni, Sandro Zambetti, nato a Ranzanico (Bergamo) il 4 settembre 1927.
Il vecchio estensore della Lune, le stesse che Sandro volle e approvò nel lontano 1996, lui che non amava i necrologi, vorrebbe fermarsi qui, come ha fatto in passato per i più grandi registi: anche perché lui regista lo era davvero, e pure grande. Ma il cronista, che prepara il terreno allo storico, non può fermarsi.
Dirà quindi del laureato in lettere a Milano, del giovanissimo giornalista, dal 1948 al 1961, a L'Eco di Bergamo, di cui diventa redattore capo e critico cinematografico, poi negli anni '60 del collaboratore al quindicinale Politica, diretto dal democristiano di sinistra Nicola Pistelli, e del settimanale della sinistra cattolica postconciliare Sette giorni (1967-1974), diretto dai laici Ruggero Orfei e Piero Pratesi.
Sin dalla nascita (Venezia, 1961) la sua storia si intreccia a quella di Cineforum, che alla fine del decennio si sposta progressivamente su posizioni marxiste – una “scelta di classe”, si direbbe – , seguendo il nuovo orientamento da lui impresso alla Federazione Italiana Cineforum di cui è presidente dal fatidico 1968 (lo sarà sino al 1978): e della rivista diventa direttore nel 1970, contribuendo in prima persona al suo cambiamento politico/culturale, carica che mantiene fino al 2009.
Completano il quadro la fondazione nel 1983 del Bergamo Film Meeting, il più vivace tra i piccoli festival, diretto sino al 1998, e la costituzione della Fondazione Alasca di Bergamo, di cui è presidente e che raccoglie il patrimonio bibliotecario, fotografico e cinematografico di una vita.
A parte l'intensa attività giovanile, con gli anni si rarefà sino a quasi annullarsi il suo apporto critico diretto, impegnato com'è a guidare, favorire, provocare quello dei suoi collaboratori, molti dei quali creati da lui stesso, altri cresciuti grazie alla sua fiducia. Un direttore rigoroso, esigente, perfino implacabile, ma la cui tacita approvazione vale più di un aperto riconoscimento. Un grande regista, appunto.
Un solo libro reca la sua firma, un Francesco Rosi (La Nuova Italia, Castoro Cinema, 1976), non a caso dedicato a un illustre cognato (a una celebre cognata, la stilista Krizia, accennava con pudore), lui che, con i suoi numerosi figli di sangue o di adozione, della famiglia aveva un concetto spropositato.
Lo ricorderemo con il suo camiciotto cilestrino fuori dei pantaloni, con i suoi scarp del tennis, con la sua andatura lievemente sghemba, con il suo eterno toscano semispento in bocca, con il suo sorriso insieme tenero e tagliente.
(Da Cineforum 536, giugno 2014)