Nel Teatro 14 di Cinecittà, alle 11.35, primo ciak de La dolce vita di Federico Fellini: Anita Ekberg sale le scale della cupola di San Pietro, naturalmente ricostruita in studio.
Quasi nessuno conosce Anita, o almeno l'ha particolarmente apprezzata, ma in compenso – quasi un contrappasso – nemmeno l'attrice svedese conosce il regista romagnolo. Racconterà (ma a morte di quest'ultimo avvenuta):
«Fin da bambina io sognavo che prima o poi sarei andata a Roma. Ma vi andai per la prima volta negli anni ‘50, per interpretarvi Guerra e pace, il film diretto da King Vidor. Abitavo all’Hôtel de la Ville, presso Trinità dei Monti. Allora non c’era il caos che c’è ora e dall’Hôtel de la Ville a Cinecittà impiegavo cinque minuti. Guidavo una Mercedes 300 S.L. decappottabile, sempre aperta, anche quando pioveva, i capelli al vento. Probabilmente Fellini mi notò lungo la strada o a Cinecittà e chiese al mio agente che voleva incontrarmi.
Dissi al mio agente: “Ma questo Fellini è totalmente sconosciuto, a che mi serve incontrarlo?”. Ma il mio agente mi fissò un appuntamento con lui, nel mio albergo. Io non parlavo una parola di italiano, Fellini non parlava una parola di inglese. Traduceva il mio agente. Io dissi a Fellini: “Fammi vedere il copione”. Fellini rispose: “Non c’è il copione”. “Questa è una buffonata”, dissi al mio agente. Fellini mi disse: “Ti spiego a voce quello che devi fare, poi scriviamo il copione”. “Questo è matto”, dissi al mio agente. “Se vuoi, scrivilo tu il copione”, mi disse Fellini. “È proprio matto”, dissi al mio agente. Ci lasciammo senza concludere nulla, ma dopo qualche giorno Fellini mi inviò in albergo alcuni foglietti con delle battute di dialogo scritte in un inglese pessimo, orrendo. Le lessi e scoppiai a ridere. Mi dissi: “Forse sarebbe divertente, ma non posso fare un film con un matto del genere”. Senonché il mio agente firmò il contratto e mi ritrovai incastrata.
Incominciammo a girare. Fellini scriveva le battute giorno per giorno e por mi chiedeva: “Tu che ne pensi? Se non ti piacciono, le cambiamo”. Arrivammo alla scena nella Fontana di Trevi. Quella scena era avvenuta realmente, prima che conoscessi Fellini. Una notte stavo facendo delle foto con il fotografo del film, Pierluigi. Ero scalza e mi tagliai un piede. Mi misi alla ricerca di una fontana per bagnarmi il piede sanguinante e, senza accorgermene, sbucai in piazza di Trevi. Era d’estate. Indossavo un vestito di cotone bianco e rosa con la parte superiore tipo camicia da uomo. Mi tirai su la gonna e mi immersi nella vasca, dicendo a Pierluigi: “Non puoi immaginare come è fresca quest’acqua, vieni anche tu”. “Fermati così”, mi disse Pierluigi, e incominciò a scattare. Quelle foto andarono a ruba. Ma la differenza è che io mi ero immersa nella vasca in agosto, mentre Fellini mi ci fece immergere a marzo».
E fin qui le cose sono abbastanza risapute. Ma il bello giunge adesso.
«Sono stata io a rendere famoso Fellini, non lui me. Quando il film fu presentato a New York, il distributore riprodusse la scena della Fontana di Trevi in un cartellone alto quanto un grattacielo. Il mio nome era nel mezzo, gigantesco, il nome di Fellini in basso, piccolo piccolo. Ora il nome di Fellini è diventato grandissimo, il mio piccolissimo. Tutti dicevano che io non avevo talento, che avevo soltanto dei lunghi capelli biondi e un seno maestoso, ma La dolce vita fu come una passeggiata per me, avrei potuto farla con gli occhi bendati. Ogni tre giorni fanno rivedere alla televisione quella scena. I telecronisti non dicono “La dolce vita di Fellini con Anita Ekberg”, ma “La dolce vita di Anita Ekberg con Fellini”, o semplicemente “La dolce vita di Anita Ekberg”» (da Costanzo Costantini, Fellini. Raccontando di me, Editori Riuniti, 1996).
Povero, Federico, e poveri i suoi laudatores indiscriminati.