«Con tutta la simpatia che si può nutrire nei suoi confronti e con tutta la fiducia che a lungo buona parte della critica (prima di passare all'ostracismo) gli accorda, Samperi è uno che fa rabbia. Dotato di buone quando non ottime qualità registiche, con bel senso della macchina da presa e della direzione degli attori, non privo di gusto nel senso del costume e della ricostruzione d'epoca, presto si ripiega su se stesso, alla ricerca – talora vana – di un successo assicurato. Passa ben presto dall'atteggiamento critico e provocatorio delle sue prime cinque pellicole (con funzione di stimolo e di riflessione, come suggerisce Goffredo Fofi) a un edonismo fatto di corpi e di situazioni e poi a un côté quasi pecoreccio, salvato soltanto dal solito controllo delle qualità visive. Il complesso della sua opera, che assomma a una ventina di film, alcuni dei quali dimenticati, andrebbe analizzato in successione, giacché vi sono ripiegamenti e ritorni, alcuni addebitabili ai suoi sceneggiatori o ai suoi produttori, altri alle mode del momento, altri ancora – appunto – al tentativo di restare a galla. A voler azzardare un'ipotesi sembra quasi che il regista riassuma in sé la sorte di tanti protestatari di un tempo pervenuti allo sbando e non capaci di reggere sino in fondo le proprie istanze o di pilotarle nella direzione giusta o di non cedere alle tentazioni del consumo» (Lorenzo Pellizzari, Dizionario dei registi del cinema mondiale, a cura di Gian Piero Brunetta, Einaudi, 2006).
Chissà se, prima della sua scomparsa avvenuta il 4 marzo 2009, Salvatore Samperi, di cui qui si ricorda il settantesimo dalla nascita, avrà avuto modo di leggere questa scheda e magari di farci sopra qualche sghignazzata. Sono i rischi che corre sempre quel piccolo biografo critico che è il compilatore di voci enciclopediche, sospeso tra la volontà di informare, inquadrare e giudicare e il rispetto umano, che può ferire quando l'interessato è in vita e può sembrare di cattivo gusto quando non lo è più. A una certa distanza, si può solo affermare che la Lisa Gastoni di Grazie zia (1968), la Laura Antonelli di Malizia (1973), ma anche i personaggi di Nenè (1977) e di Ernesto (1979) gli sopravvivono, specie quando il critico si ricorda – come diceva Oreste del Buono – di essere un “comune spettatore”.