S’alza il sipario sulla XXXVIII Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, che quell’anno ha come presidente della giuria Alberto Moravia. Tra i film in concorso Edipo re di Pier Paolo Pasolini, Lo straniero di Luchino Visconti, La cinese di Jean-Luc Godard, ma Luis Buñuel con Bella di giorno se li mangia giustamente tutti.
«Atmosfera che quest’anno non potrebbe essere più concorde e radiosa. Finite le polemiche, le dichiarazioni rabbiose, i ricatti ineducati, la rissosa difesa della necessità del turismo o dell’ascetismo intellettuale. Non più imposizione di austerità e bando alle paillette da parte della direzione della Mostra, non più sotterranei tentativi degli albergatori per liberarsi dell’incomodo professor Luigi Chiarini. Finita l’inimicizia. Saldata la frattura che lacerava il Festival. Finalmente. Cultura e frivolezza, come socialisti e democristiani, hanno finito per trovare un accordo», sintetizza su L'Europeo Lietta Tornabuoni, che trova il tempo di intervistare uno svagato e malinconico Mastroianni, protagonista appunto dell'irrisolto Lo straniero.
«Io qui mi sento a disagio. Incontro un sacco di gente, non so, dei dottori, dei commendatori, degli ometti sconosciuti di cui ti domandi: ma che c’entrano questi con il cinema, che ci stanno a fare, chi sono? Scopri che Cinecittà e i teatri di posa sono solo la fabbrica, in una industria; poi esiste tutto il resto, gli uffici, i rappresentanti di commercio, gli affaristi, i mediatori, le frange». L.T. «Che cosa ci è venuto a fare, allora, a Venezia?». M.M.: «Mi dicono: c’è il tuo film, il tuo regista, che fai, ti tiri indietro? Mi dicono: è un dovere, si deve fare. E allora lo faccio. Altrimenti dovrei cominciare a discutere, a litigare, a sostenere il mio punto di vista: non mi va. Faccio meno fatica ad andare sulla spiaggia e farmi fare gli sberleffi dai paparazzi che non a prendere posizione. Mi succede tante volte, quasi sempre, in tutte le cose. Ho una mia idea, sento di avere ragione, però mi manca l’energia, il coraggio, la forza e la voglia di difendere le mie opinioni». L.T.: «È davvero così forte la sua pigrizia?». M.M.: «La fama di pigro me la sono fatta, ed è molto comoda. Ma non corrisponde tanto alla verità. In realtà, più che un pigro, io sono un asociale. Non mi piace il gioco collettivo. Mi voglio divertire da solo. […] È una forma di egoismo, di mancanza di generosità, di noia. […] È meno faticoso essere gentili che essere sinceri. Tanto è uguale. Succeda una cosa, non succeda oppure ne succeda un’altra, per me è proprio lo stesso. Non riesco a lasciarmi coinvolgere e non riesco a sentirmi coinvolto. Io ho una vitalità puramente fisica: mi piace mangiare, bere, dormire, essere coperto quando fa freddo, stare al fresco d’estate, portare bei vestiti, avere belle case, per il resto tutto mi è più o meno indifferente». L.T.: «Tale e quale Meursault, il protagonista del romanzo di Albert Camus e del film di Luchino Visconti, straniero a se stesso e al mondo che lo circonda. Me lo avevano detto che lei è assai influenzabile e che, non avendo una personalità molto forte, tende a prendere in prestito quella del suo ultimo personaggio». M.M.: «E lei non pensa che Visconti abbia scelto me perché avevo qualcosa in comune con il personaggio? Mi creda, io non ho niente dell’attore. Né dell’attore colto, né dell’attore istrione, né del professionista, né del dilettante, né del genio, né del guitto. Io sono un perito edile: e quello dovevo fare, lì dovevo restare. In cantiere con i muratori. In un ambiente operaio, almeno, nessuno mi avrebbe chiesto di essere brillante, di essere aggiornato, di avere personalità. Sarei stato benissimo a costruire palazzine: un mattone sopra l’altro fa un muro, non si discute».