Krzysztof Kieslowski “muore sotto i ferri” a soli 54 anni a Varsavia (dove era nato il 27 giugno 1941) durante un ulteriore intervento per impiantargli un bypass, in conseguenza del brutto infarto che lo aveva colpito nell'estate dell'anno precedente.
La ricorrenza mi torna alla mente - con la data in vero già destinata ad un'altra "altraluna" - grazie al graditissimo invito degli amici del nuovo cineforum alessandrino FIC dedicato alla memoria di Adelio Ferrero, di presentare Il caso (alias Destino cieco, 1981-1987): raccolto con doppio piacere, anche perché “passa” la vecchia gloriosa copia Lab80 già ripetutamente visionata nel corso del tempo, e fa piacere coniugare una “gloria di famiglia” con l'emozione, un po' amara e stranita, di assistere forse all'ultima proiezione di una pellicola nella propria esistenza.
A Perugia, il 27 aprile 1995, raccogliendo dalla viva voce del grande regista l'intervista che avrebbe aperto il suo bel Castoro, uscito purtroppo poco dopo la scomparsa di Kieslowski, Serafino Murri non avrebbe certo potuto immaginare di essere inconsapevole protagonista di uno dei suoi ultimi atti comunicativi. L'autore avrebbe dovuto “aggiornare” tristemente la Prefazione originaria, in conseguenza del tragico imprevisto.
Vale la pena di riportarne la conclusione: «Ripensare oggi al poco tempo condiviso con Kieslowski fa male. La morte, che si era fatta precedere da un primo infarto, ha cancellato all'improvviso la presenza di un uomo dall'intelligenza schiva, lontano anni luce dai cerimoniali della società dello spettacolo. […]. Aveva avvertito che la vita gli stava sfuggendo di mano. Niente di preordinato: consapevolezza, presentimento, paura, forse, e chissà cos'altro ancora. La sua esistenza, negli ultimi mesi passati nella casa di Varsavia prima dell'operazione che l'avrebbe stroncato, è stata fin troppo simile a quella dell'ultimo suo grande personaggio, il giudice di Film rosso. Un tentativo solitario, incerto, forse tardivo di fermarsi ad aspettare per poter riafferrare la propria vita. Ora mi sembra che quel lungo silenzio in cui Kieslowski, rispondendomi, si fermava a riflettere sulle sue parole, debba durare per sempre. Come se la morte lo avesse colto durante la sua ultima esitazione, l'ultimo tentativo di ascoltarsi per cercare di comprendere, di venire a capo di quel mistero della vita che è stato al centro di tutta la sua opera».
Ma anche della stessa intervista vale la pena di reiterare la risposta conclusiva, non soltanto per l'involontario ma oggettivo valore di testamento morale che essa viene col senno odierno ad assumere, ma in quanto attesta una grandezza umana che non avrebbe neppure avuto il bisogno della convalida di tanti capolavori:
«Non sono particolarmente soddisfatto. Credo di aver raccontato delle storie, non solo perché quello era il mestiere che mi ero scelto, ma anche per un bisogno irrefrenabile di analizzare la mia vita. Da questa analisi è nata l'analisi dei miei personaggi, reali o fittizi che fossero. Credo che non ci sia altro. Per quanto riguarda i miei film, infine, devo dire in tutta sincerità una cosa: nella mia vita credo di aver ricevuto più di quanto mi aspettassi di ricevere. E più di quanto in realtà io valga».
Amaramente, il grande cinema internazionale della seconda metà del Novecento è stato impoverito dal forzato congedo troppo precoce di troppi: Truffaut e Tarkovskij in primis, lo stesso Kubrick. Né è andata meglio al cinema italiano, già di suo col fiato grosso, di questo primissimo albore di nuovo millennio. Pensiamo solo a Giuseppe Bertolucci l'altroieri e a Carlo Mazzacurati ieri.