Nel cinema italiano non mancano le figure apparentemente marginali che avrebbero meritato maggior attenzione da parte dei produttori ma anche maggior fiducia in se stessi. È il caso – pare di poter dire pur dopo averlo incontrato solo una volta – di Gianfranco Mingozzi, scomparso in questo giorno di cinque anni fa, all'età di 77 anni. Una persona gentile, timida e insieme risoluta, e una figura anomala, raffinata e libera, che tocca filoni e tematiche diverse con risultati sempre notevoli, anche quando pare indulgere alla moda.
Duplice la sua filmografia, con due modi che sembrano non incontrarsi. C'è infatti che lo ricorda essenzialmente come documentarista, sin dai tempi dei mirabili La taranta o Tarantula (1962, ma sarebbe il massimo confonderlo con il film di Jack Arnold del 1955!) e Col cuore fermo, Sicilia (1965, Leone d'oro a Venezia). Se La taranta (visibile su YouTube) è un piccolo capolavoro etnografico, frutto di molti vagabondaggi nelle terre del Salento, che si avvale delle musiche originali registrate da Diego Carpitella, della consulenza di Ernesto de Martino e di un commento lirico ma pugnace di Salvatore Quasimodo, Col cuore fermo Sicilia, nato da un'idea di Zavattini e con un intenso commento di Leonardo Sciascia, è una profonda analisi dei problemi dell'isola: dalla generale arretratezza all'analfabetismo, dallo sfruttamento del lavoro alla violenza mafiosa. (Avrebbe dovuto essere un film su Danilo Dolci, ma Dino de Laurentiis fu indotto a lasciar perdere: sospese i finanziamenti e trattenne per sé il girato.)
Al documentario, come modulo espressivo, Mingozzi resterà affezionato per tutta la vita: la sua ultima fatica sarà, in collaborazione con Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto “La dolce vita” (2009), il film di cui, appena uscito dal Centro Sperimentale, era stato sesto assistente e in cui era comparso nel ruolo di un pretino.
Nato a San Pietro Capofiume, frazione di Molinella, Bologna, il 5 aprile 1932 in pieno fascismo, sembrava non essersi mai mosso dal paese natio, ove – raccontano le cronache –, figlio dei proprietari dell'unico cinema dei dintorni e di salute cagionevole, era cresciuto tra i film e i libri di cui era accanito divoratore. Di questa adolescenza troveremo traccia nell'evocativo La vela incantata (1983), forse la sua opera migliore. Esordisce nel lungometraggio con lo sfortunato Trio (1967), valorosa inchiesta sociologica sul mondo giovanile, cui fanno seguito nel tempo lo psicologico Sequestro di persona (1967), l'impegnato Morire a Roma (La vita in gioco) (1972), ove mette in gioco anche la propria omosessualità, il protofemminista Flavia, la monaca musulmana (1973), l'antifascista Gli ultimi tre giorni (1977), il libertino L'iniziazione (1986, con una favolosa Marina Vlady, nature nonostante l'età), il favolistico Il frullo del passero (1988), il nostalgico L'appassionata (1989), il fantasioso Tobia al caffè (2000), chiavi diverse per esprimere una sua visione generosa e accorata del mondo e della vita.