Destò non poche sorprese la notizia che Luchino Visconti aveva scelto Farley Granger quale protagonista maschile per il suo film Senso (1954), che già dall’ambientazione storica, si preannunciava come «scandaloso». Passasse per Alida Valli, da poco reduce dall’avventura americana che vi approdava dopo il fumettistico (nonostante l’ascendenza stendhaliana) Gli amanti di Toledo del modesto Decoin; bene, come deuteragonista, il fedele Massimo Girotti, ma quel californiano appena visto in uno stravagante episodio di Storia di tre amori di Minnelli proprio non lo si capiva. Il suo nome non richiamava il pubblico che lo confondeva con Stewart Granger, tanto che Samuel Goldwyn tentò invano di cambiargli nome, e perfino il suo aspetto non aveva molto dell’ufficialetto absburgico.
Ma Visconti – a parte l’abituale capacità di trasformare il «materiale umano» secondo i propri intenti – aveva saputo cogliere in lui quel dono dell’ambiguità accompagnato dalla cialtroneria e dalla viltà che richiedeva il personaggio: un seduttore arrogante, tanto bello da risultare bisessuale, proprio come l’attore nella realtà (lo ammetterà lui stesso nella propria tardiva autobiografia). Una prova tutto sommato maiuscola per il trentenne Granger, ma che ebbe una nefasta conseguenza: divo di tutte le copertine, bello e dannato, un romantico infame, finì con il restare imprigionato dal ruolo.
A partire dal 1955, Farley si eclissa dal cinema per lavorare a teatro e alla televisione, e ricompare sui grandi schermi europei solo una quindicina di anni più tardi, prendendo parte marginalmente a produzioni italiane minori e a diversi «spaghetti western», come Lo chiamavano Trinità... (1970, Clucher) e Il mio nome è Nessuno (1973, Valerii). Eppure, prima di Visconti, era stato protagonista per Nicholas Ray (La donna del bandito, 1948) e per Hitchcock (Nodo alla gola, 1948; L’altro uomo, 1951, entrambi, non a caso, con riferimenti ad attrazioni omosessuali).
nsomma, Visconti aveva visto giusto. Andrà molto meglio, dieci anni dopo, a un altro attore americano, scelto altrettanto sorprendentemente da Visconti per un altro suo capolavoro: il Burt Lancaster di Il Gattopardo (1963). Anche se il film, rimontato e tagliato di ben 40 minuti, fu un colossale insuccesso negli Usa, quella prova maiuscola convinse Burt a mutare di registro, almeno ogni volta che fosse possibile. Il via lo dette con il coraggioso Un uomo a nudo (1966, ma 1968), non a caso un insuccesso, cui seguirono negli anni le memorabili interpretazioni, ancora con Visconti, di Gruppo di famiglia in in interno (1974) e con Bertolucci di Novecento (1976).
Questa volta in tutto c’era un «senso» e l’Italia aveva menato buono.