Settant'anni – sino a questo giorno – vissuti come in disparte, ma con una carica interiore di non sopita rabbia. Queste in sintesi vita e carriera di Gérard Blain, come si captava in un film forte e cattivo quale Il gobbo (1960) di Lizzani. Nei panni di Alvaro Cosenza, detto il “Gobbo del Quarticciolo”, un giovane diseredato che nella Roma occupata prende le armi contro i tedeschi e, a liberazione avvenuta, contro gli americani, diventando un bandito, Blain, perfino ingobbito, era perfetto e persuasivo, in una prova quasi da Actors' Studio.
L'avevamo già brevemente apprezzato nei Mistons (1958) di Truffaut, accanto alla futura moglie Bernadette Lafont, e poi con la stessa in Le beau Serge (1959) di Chabrol, un regista che lo prediligeva e che l'avrebbe diretto anche nei Cugini (1959): vedeva in lui un contraltare europeo di James Dean, per l'aspetto fragile e forte, il tono malinconico e chiuso, il volto moderno e inquieto, uno che come tale avrebbe incantato anche Hawks (Hatari!, 1962) e, molto più tardi, Wenders (L'amico americano, 1977).
Non sapevamo che, abbandonato dal padre, aveva trascorso un'infanzia turbolenta, che a tredici anni aveva abbandonato la scuola senza conseguire alcun titolo di studio, che aveva collaborato con forze vicine alla Resistenza. Né sapevamo che, dopo prove minori, era stato il vecchio Duvivier a rivelarlo con Ecco il tempo degli assassini (1956), nel significativo ruolo di uno studente di medicina irretito da una maliarda (Danièle Delorme) che lo spinge a uccidere il padre adottivo (Jean Gabin).
In Italia Blain si era trovato bene, al punto di essere considerato attore nostrano: I giovani mariti (1958, Bolognini), Via Margutta (1960, Camerini), I delfini (1960, Maselli), L'oro di Roma (1961, Lizzani), anche se in ruoli non eccezionali. Non cedette invece alle lusinghe hollywoodiane: insofferente alle regole dello star system, rifiutò, dopo Hatari!, di sottoscrivere un contratto con la Paramount e rientrò in Francia, riducendo tuttavia i suoi impegni di attore (lo si ricorda ancora come comprimario in Il 13° uomo,1967, di Costa Gavras e in Il bambino d'inverno, 1989, di Assayas).
Passato dal 1971 alla regia, scrive e dirige buoni film di tono bressoniano (il maestro che ama e cui si ispira), mai colpevolmente giunti in Italia seppur due volte premiati al festival di Locarno (Les amis, 1971; Le pélican, 1973; Un enfant dans la foule, 1975; Un second souffle, 1978; Le rebelle, 1980: Pierre et Djemila, 1987; Jusq'au bout de la nuit, 1995; Ainsi soit-il, 1999), affrontando temi quali l'omosessualità, il rapporto padre-figlio, l'anarchismo.
E la vecchia rabbia si fa ancora sentire.