Il 12 ottobre 2006 (proprio il giorno dell'inaugurazione della Festa del cinema veltroniana, poi funestata anche dal grave incidente al metrò, unica vittima una brava ricercatrice residente a Pontecorvo!), muore a Roma, dopo un infarto di cinque mesi prima, Gillo (Gilberto) Pontecorvo, nato a Pisa in questo giorno da famiglia di origine ebraica e fratello di Bruno, il fisico nucleare sperimentale, allievo di Enrico Fermi, fra gli artefici della prima bomba all'idrogeno, poi espatriato in Urss e scomparso nel 1993.
Prima di tutto, raro esempio di scarsa prolificità ma anche di capacità di cogliere solo i temi e i tempi giusti, i suoi cinque film e mezzo: il quasi clandestino Giovanna (1956), episodio de La rosa dei venti (con la direzione artistica di Joris Ivens e il coordinamento di Alberto Cavalcanti), ove già incontra Franco Solinas (poi un suo sodale) nella storia controcorrente di un'operaia che occupa una fabbrica, nonostante il parere contrario del marito comunista; l'aspro sebbene con concessioni divistiche (Alida Valli e Yves Montand) La lunga strada azzurra (1957) dal romanzo Squarciò dello stesso Solinas; il controverso a posteriori (cfr. le opinioni del maramaldesco regista Jacques Rivette e successivamente del sopravvalutato critico Serge Daney) Kapò (1960, con una splendida Susan Strasberg), ove affronta il degrado di una donna ebrea nel lager; il mitico La battaglia d'Algeri (1965), che deve molto alla fotografia in bianco e nero di Marcello Gatti, conquista un Leone d'oro a Venezia e viene a lungo vietato et pour cause in Francia, ricostruzione quasi documentaristica della sale guerre; il kolossal Queimada (1968- 1969, in un complesso rapporto con l'ancora grande Marlon Brando), avventuroso rapporto sul colonialismo nelle sue varie forme; il meno fortunato Ogro (1979) su un attentato compiuto in Spagna dall'Eta con palese richiamo alla fine dell'infame franchista Luis Carrero Blanco.
Gillo come sovversivo e terrorista, lui così dolce e suadente nel privato e nel pubblico (per esempio come direttore della Mostra di Venezia dal 1992 al 1996 e in seguito come presidente di Cinecittà Holding)? Forse sì, basta ricordarlo come interprete di un partigiano condotto a morte, accanto al “prete” Carlo Lizzani, ne Il sole sorge ancora (1946, di Aldo Vergano). O nelle sue infinite battaglie in favore di certo cinema italiano. Reduce da una vita a sua volta avventurosa, nel 1999 si arrende alle pressioni di Irene Bignardi per un libro quasi autobiografico (Memorie estorte a uno smemorato, Feltrinelli) che rivela molto di lui, tra studi in chimica, passioni per il tennis, rischiosi soggiorni francesi e militanze intense.
Noi, che lo abbiamo sempre amato, lo ricordiamo in due fortuite occasioni: nei primi anni '60 su un treno Milano-Torino con lui incredulo del fatto che si vada a presentare a Novara il suo Kapò (mentendo: «Quale onore!») e nei tardi anni '90 negli squallidi camerini romani di Cineclassic, entrambi sottoposti a un sommario trucco per una trasmissione televisiva condotta da Tatti Sanguineti (lui un po' smemorato ma non abbastanza da non ricordarsi quel lontanissimo incontro ferroviario). Train de vie, per dirla alla Radu Mihaileanu, uno che deve essergli stato simpatico.