Ogni critico cinematografico ha (o dovrebbe avere) un regista di riferimento (la cosa dovrebbe valere anche in senso contrario, ma è ben poco praticata), nel senso di qualcuno che sente familiare per impalpabili affinità elettive e consonanze talora indicibili, e di cui cerca di seguire – partecipandovi idealmente – l'attività, non chiedendo certo di essere ricambiato. Forse dipende anche dal fatto che il critico è un autore mancato.
A chi scrive è capitato – le confessioni, oltre che indiscrete, possono risultare dolorose – con Davide Ferrario e più recentemente con Marco Bechis, di cui oggi si festeggia in modo insolito il compleanno, con l'invito a tutti i nostri 25 lettori a conoscerlo meglio.
Mezzo cileno e mezzo italiano, cresciuto tra San Paolo e Buenos Aires, espulso dall'Argentina e approdato a Milano, che resta la base di questo cittadino del mondo, è autore fra l'altro di Alambrado (1991), Garage Olimpo (1999), Figli/Hijos (2001), La terra degli uomini rossi – Birdwatchers (2008), Il sorriso del capo (2011) e della premiatissima sceneggiatura di Il carniere (1997, di Maurizio Zaccaro). Un autore inconfondibile, da quando ambienta in Patagonia una storia di solitudine e desolazione a quando, sempre in collaborazione con Lara Fremder, si dedica – lui stesso ne ha una drammatica esperienza – a storie di desaparecidos e di adozioni forzate da parte degli stessi assassini, o alla sorte iniqua degli aborigeni brasiliani.
Storie di violenza, ove il linguaggio non è separato dal discorso politico, come lui stesso spiega nelle "Note di regia" per Garage Olimpo: «La violenza non si può rappresentare perché è soggettiva. Non c'è alcuna oggettività nella violenza. Quindi come fare con un mezzo come il cinema a raccontare qualcosa di così intimo? […] Solo raccontando la meccanica dell'intenzione violenta, come si costruisce un meccanismo violento, la burocrazia che lo rende reiterato, la spersonalizzazione che rende la violenza cieca, l'acquisizione di nuove tecnologie che la rendono sempre più mimetica, sia perché si isola, sia perché si mimetizza, si camuffa» (Cineforum 392, marzo 2000).
E, in un'intervista a Fabrizio Tassi (Cineforum 413, aprile 2002) a proposito di Figli, aggiunge: «Sì, direi proprio che faccio cinema politico. Ma allo stesso tempo cosa vuol dire fare cinema politico? […] Godard diceva che non bisogna fare i politici, ma bisogna fare cinema politicamente. Ogni artista fa politica, con la sua opera. Un'opera è un modo di rappresentare la realtà. L'arte è eversiva per definizione. Disconoscere questa funzione precisa dell'arte, porta poi a dover aggiungere l'aggettivo “politico”».
Lui che, nel montare, senza voce off, il materiale dell'archivio dell'Istituto Luce per Il sorriso del capo, si rende conto, forse per primo, che si tratta del «più grande serbatoio di finzione che ci sia stato lasciato dal passato, altro che archivio della realtà di quegli anni: perché la realtà che essi hanno raccontato con queste immagini, sin dai suoni, è completamente manipolata».
Alla prossima, Marco!