Non sono molti i quotidiani, a parte “Il Messaggero” e “Il Tempo” (qui il compito tocca a un benevolo Gian Luigi Rondi) che dedicano un ricordo allo scomodo Augusto Genina, scomparso il giorno precedente (e non il 18, come indicano alcune biografie) nella stessa Roma ove è nato il 28 gennaio 1892.
Gli storici, specie quelli del muto, gli dedicano grande attenzione, ma il regista risulta discontinuo nel suo cosmopolitismo (dal ’28 al ’36 lavora in Germania e in Francia) e l’uomo controverso. Provocatoriamente si potrebbe sostenere che rimane il regista di un unico film, Miss Europa o Prix de beauté (1930), ma i meriti vanno perlomeno spartiti con gli ideatori René Clair (che avrebbe dovuto dirigerlo, e si sente) e Pabst, e soprattutto con la straordinaria performance di un’indimenticabile Louise Brooks.
Si dichiara apolitico, ma il suo trittico bellico (Lo squadrone bianco, 1936; L’assedio dell’Alcazar, 1939; Bengasi, 1942) è la miglior e più convinta stampella del cinema fascista. Nel dopoguerra tenta di riciclarsi con un suo particolare neorealismo clericale (Cielo sulla palude, 1949) ma la sua Maria Goretti, anche se esaltata come simbolo di purezza dal giovane Enrico Berlinguer, risulta di maniera, o con un melodrammatico rifacimento del desantisiano Roma, ore 11: Tre storie proibite (1953), ma il suo tempo è finito.
Parabola di un italiano come tanti altri.