Solo da due anni non rappresenta più un centenario esatto: si sarebbe già inoltrato nel secondo secolo di vita il fiorentino Folco Lulli, nato in quel lontano giorno, e scomparso prematuramente a Roma il 23 maggio 1970.
Sanguigno esponente del cinema neorealista, vi era pervenuto con piena coscienza di causa politica, avendo provato sulla propria pelle, poco più che ventenne, la guerra in Etiopia, e traendone le conseguenze morali e politiche che ogni retta coscienza civile ed etica non poteva non trarre da quegli anni di fuoco e di morte. Così, al rientro in Italia e allo sfaldarsi dell'esercito l'8 settembre, il massiccio e prestantissimo ventunenne toscano trova naturale entrare nella Resistenza, e lo fa con una delle prime bande, di militari antifascisti ma rimasti fedeli al giuramento al Re: la leggendaria formazione di alpini al comando del maggiore Enrico Martini («Mauri»: nome di battaglia poi introiettato nel cognome. La lettura del suo Partigiani penne nere, Mondadori 1968, mi suggestionò durante il servizio militare nel 2° Alpini, alla cui guida c'erano alcuni suoi ex-dipendenti, e mi fece anche sorvolare sui suoi successivi, forse inevitabili trascorsi con Edgardo Sogno Rata del Vallino...).
Dopo aver preso parte alla difesa di Roma ed essere sfuggito alla cattura tedesca, Martini il 17 settembre è già nella futura zona di combattimento, poco dopo che l'apripista Duccio Galimberti aveva raggiunto Madonna del Colletto, dando di fatto inizio all'attività partigiana. Non è una formazione da poco: è la stessa unità di “azzurri badogliani” immortalata da Beppe Fenoglio ne I ventitre giorni della città di Alba e soprattutto nel Partigiano Johnny, dove il personaggio di Lampus cela lo stesso Mauri.
Con una simile scuola, dispensatagli nello scabro e impagabile paesaggio del cuore delle Langhe, tra Murazzano e Mombarcaro, fino alla cattura da parte dei nazisti, alla prigionia in Germania e al ritorno in Italia, Lulli si ritrovò con naturalezza nell'ambiente progressista del cinema, immessovi da Alberto Lattuada che già nel '46 lo volle ne Il bandito, e poco dopo nel Giovanni Episcopo, in Senza pietà e in Luci del varietà, mentre già si erano fatti avanti con lui anche De Santis e Camerini, Coletti e Borghesio.
Le sue straordinarie «fotogenia», come allora si usava dire, e l'innata bravura, gli avrebbero consentito di impersonare tanto il gerarca fascista in fuga e senza scrupoli (Fuga in Francia di Soldati) quanto il semplice soldato veneto o l'operaio che muore tragicamente durante uno sciopero pionieristico (rispettivamente ne La grande guerra e I compagni di Monicelli).
Non si è fatto mancare anche lui, una tantum, la regìa: Gente d'onore (1967), annoverando tra gli interpreti il fratello minore Piero, più giovane di undici anni, che aveva cominciato col cinema prima di lui (1942, con Folco ancora in guerra) e avrebbe a sua volta una ventina di non secondarie caratterizzazioni.